Ci sono persone che tengono in vita il proprio carnefice senza rendersene conto. Non serve che lui agisca, né che ritorni. Basta che loro continuino a pensarlo. A ripercorrere i passi che hanno portato alla ferita. A rivivere il momento in cui “tutto è iniziato”, con l’illusione che capendo meglio, prevenendo meglio, potranno evitarlo. Ma ogni tentativo di evitarlo è, in realtà, un modo per restare lì. Inchiodati alla stessa traiettoria. Con lo sguardo fisso sul punto da cui vogliono scappare, camminano senza accorgersene verso di lui.
Come Demetri Noh in FlashForward. Tutti, durante il blackout, vedono uno scorcio del proprio futuro. Lui no. Nessuna visione. Nessun indizio. Solo buio. E quel buio lo inghiotte. Si convince che significhi una cosa sola: morirà. Inizia allora la corsa contro il tempo. Vuole cambiare il destino, impedirlo, sfuggirgli. Ma è proprio quella paura – quel desiderio spasmodico di salvarsi – a spingerlo dritto verso la fine. Non è la morte che lo rincorre. È lui che, nel tentativo di evitarla, la rincorre.
E non è solo una dinamica personale. A volte inseguiamo il carnefice di qualcun altro. Pensiamo di voler solo evitare un pericolo, o salvare qualcuno. Ma quella corsa, che sembra compassione o giustizia, ci trascina dove non eravamo destinati a finire: nelle braccia del male che non ci apparteneva. Ogni notizia, ogni caso di cronaca, ogni dramma planetario diventa una traccia. E noi, seguendola, lasciamo che la nostra attenzione venga risucchiata. Per questo non amo seguire le notizie. Perché non informano: formano la strada su cui camminerà la tua paura.
Anche la ricerca interiore, se non stai attento, può diventare una trappola lucida. La vedo spesso – e lo dico senza giudizio – nelle donne. Donne ossessionate dalla spiritualità, donne che parlano solo di violenza da parte degli uomini in tutte le sfaccettature, di metodi su come tutelarsi, di tecniche, di consapevolezza. E mai una volta che si divertano senza farlo vedere. Mai una che esca a ballare senza usare quel video per i social, a prendersi in giro, a vivere la leggerezza di una donna adulta che non deve dimostrare più niente. Come se anche il piacere dovesse avere uno scopo. Un’utilità. Un significato.
Ovviamente tutto questo sfocia anche nel settore olistico, e lo vedo in continuazione…e come?
Semplice. Se sei un counselor, un coach, un operatore olistico e sei concentrato sul “trovare”, sei già in pericolo. Trovare clienti. Trovare la nicchia. Trovare la voce giusta. Trovare l’algoritmo vincente. Tutta questa frenesia è lo specchio della paura. E dove c’è paura, il carnefice sa già dove mettersi in attesa. Non ha più le sembianze del trauma. Ma del professionista affermato. Del funnel efficace. Del metodo infallibile. Del personal branding impeccabile.
E così, mentre cerchi di evitare il fallimento, ci entri dentro. Mentre insegui il successo, perdi la voce. Mentre costruisci contenuti perfetti, dimentichi perché avevi iniziato a parlare. E il lavoro che amavi diventa una recita. Una strategia. Un altro modo per essere accettati.
Chi si perde in questo “trovare” dimentica che il contenuto più potente nasce quando si smette di cercare. Quando si parla da dove si è. Da quello che si vive. Senza forzare chiarezza, senza vendere risposte. La voce vera non cerca di convincere. Non cerca nemmeno di piacere. Si limita a esserci. E quando c’è davvero, attira. Non per calcolo. Ma per risonanza.
Il carnefice – in questa versione – è tutto ciò che ti fa credere che devi diventare qualcosa per meritare attenzione. È lì che si perde tutto. Anche l’amore per il proprio lavoro.